Sono tornata stanotte da Zanzibar, una delle terre d'Africa che più amo, dove mi sento veramente a casa.
La tentazione di raccontare tutto è immensa: dal primo respiro degli amati aromi tropicali, al primo contatto con la sabbia fine e bianchissima, al susseguirsi di tramonti e lune, ai suoni antichi e alla pace del cuore infinita che mi accompagnano in ogni istante che vi trascorro.
Per ora, non lo farò. Mi metterei a piangere qui, nel mio ufficio, tra i neon e i termo accesi, con il telefono che squilla e l'odore di chiuso.
L'unica cosa che devo dire, che ho bisogno di dire, è che ci andrò a vivere per un po' prima o poi. Me lo devo.
E lo devo a tutti le persone che ho conosciuto là e che mi hanno dato un ritrato lucido della vita in un'Africa che ha grandi finestre sull'Europa, dalle quali vede benessere e opulenza vacanzieri di una società consumista che dimentica le proprie tradizioni e deride quelle altrui.
Lo devo a Susy, che mi ha parlato a suo modo delle cariche batteriche e delle concentrazioni proteiche del polipo, dicendomi serenamente che lei è molto intelligente, e che se fosse in Europa diventerebbe sicuramente una scienziata, ma che ha scelto di lavorare e non sposarsi fino a quando potrà avere abbastanza soli per dare ai suoi figli una vita diversa, una scuola prestigiosa. Susy parla di queste cose ridendo. Le dico che magari intanto può studiarsi qualcosa online, andando nell'Internet point gestito da locali che si trova a pochi metri dal negozio dove lavora. E lei, sempre ridendo, mi dice che non ce li ha, i soldi per Internet. Che stupida sono, e quanto ricca, davvero, rispetto a questa bella gente allegra e tra le meno povere del continente.
Lo devo a Nahosa, che mi ha accompagnato nelle mie escursioni per l'isola, e che mi ha insegnato a giocare a Bao in 3 modi, spiegandomi tante superstizioni delll'isola e illustrandomi pazientemente le differenze tra le religioni e gli stili di vita. Nahosa ha visto l'Italia, dice, e crede nei sogni premonitori che lo vedono legato a questo paese.
Lo devo a due amici Masai, battezzati cattolici con nomi di apostoli in italiano, che non ricordano quale fosse la religione Masai prima che le missioni convertissero questo grande popolo della Tanzania, appena un secolo fa. A loro, forse, devo anche delle risposte future: mi hanno fatto notare che, proprio io che li esorto a mantenere vive le proprie tradizioni culturali me ne vado a vivere in America per quasi due anni, sicura di non perdermi e trasformarmi in americana, ma meno sicura che sentirli gridare testualmente "Abbella, com'è? Tutto bene oggi?" non sia un segno di una qualche perdita della loro "Masaità".
Presunzione involontaria, ragazzi, scusate. Anche voi sapete adattarvi superficialmente come me, rimanendo voi stessi. O forse, il concetto di rimanere sé stessi non ha senso, e non è importante davvero.
Lo devo, infine, a tutte quelle persone con cui ho chiaccherato per ore, che mi hanno insegnato la gioia, la gentilezza e l'importanza della parola data, che vivono con orgoglio e umiltà ad un sol tempo.
Sono combattuta tra fare qualcosa per diminuire le ingiustizie che la nostra invasione turistica acuisce, ma partecipandovi necessariamente con la mia sola presenza di bianca occidentale, o astenermi per non fare ulteriori danni involontari.
So che questa battaglia la vincerà l'istinto, e un giorno tonerò di nuovo là, per prendere e dare, per motivi che in fondo sono tutti egoistici, ma cercando di fare del mio meglio per migliorare la vita di Zanzibar come Zanzibar migliora la mia.